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In un cable riservato del 1988, inviato dal consolato USA a Gerusalemme, un fotogramma preciso del modus operandi e degli obiettivi di Hamas durante la prima Intifada. Lo sviluppo del movimento fondamentalista islamico, oppositore dell’OLP, potrebbe essere stato indirettamente aiutato nella sua ascesa dagli israeliani.

Il movimento fondamentalista islamico Hamas (in italiano “Entusiasmo”, “Zelo nel sentiero di Allah”), acronimo di Ḥarakat al-Muqāwamah al-ʾIslāmiyyah (Movimento di Resistenza Islamica), è stato costituito nel 1987, durante la prima Intifada, come costola palestinese dei Fratelli Musulmani (al-Ikhwān al-Muslimūn), l’organizzazione panislamica fondata in Egitto 1928 e strutturatasi in Palestina sin dal 1935, sotto l’influenza del gran Mufti di Gerusalemme, Al-Hajj Amin al-Husseini, e dell’islamista e patriota antibritannico ‘Izz al-Din al-Qassam

Lo sceicco Ahmed Yassin, uno dei cofondatori di Hamas e guida spirituale del movimento fino alla sua tragica morte, il 22 marzo 2004, quando fu assassinato a Gaza da un missile lanciato da un elicottero israeliano, nel patto dell’organizzazione del 18 agosto 1988, indicò chiaramente, tra gli obiettivi del movimento, la lotta alla secolarizzazione nel nome dei precetti fondamentali dell’Islam, la liberazione della Palestina storica dall’occupazione israeliana e l’instaurazione di uno Stato islamico.

Netto il giudizio sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nell’art. 27 della “carta” di Hamas:

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ci è più vicina di ogni altra organizzazione: comprende i nostri padri, fratelli, parenti e amici. Come potrebbe un buon musulmano respingere suo padre, suo fratello, il suo parente o il suo amico? La nostra patria è una, la nostra tragedia è una, il nostro destino è uno, e il nemico è comune.

A causa delle circostanze in cui è avvenuta la formazione dell’OLP, e la confusione ideologica che prevale nel mondo arabo a causa dell’invasione ideologica che lo ha colpito dopo le Crociate e che è proseguita con l’orientalismo, il lavoro dei missionari e l’imperialismo, l’OLP ha adottato l’idea di uno Stato laico, ed ecco quello che ne pensiamo. L’ideologia laica è diametralmente opposta al pensiero religioso. Il pensiero è la base per tutte le posizioni, i modi di comportamento e le decisioni.

Pertanto, nonostante il nostro rispetto per l’OLP – e per quello che potrà diventare in futuro –, e senza sottovalutare il suo ruolo nel conflitto arabo-israeliano, ci rifiutiamo di servirci del pensiero laico per il presente e per il futuro della Palestina, la cui natura è islamica. La natura islamica della questione palestinese è parte integrante della nostra religione, e chi trascura una parte integrante della sua religione certamente è perduto.

Quando l’OLP avrà adottato l’islam come il suo sistema di vita, diventeremo i suoi soldati e la legna per i suoi fuochi che bruceranno i nemici. Fino a quando questo non avvenga – ma preghiamo Allah perché avvenga presto – la posizione del Movimento di Resistenza Islamico rispetto all’OLP è quella di un figlio di fronte al padre, di un fratello di fronte al fratello, di un parente di fronte al parente che soffre per il dolore dell’altro quando una spina gli si è conficcata addosso, che sostiene l’altro nella sua lotta con il nemico e gli augura di essere ben guidato e giusto.

Tralasciando altre questioni, oggetto di durissime critiche, come l’art. 6, che recita testualmente che “Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento palestinese unico. Offre la sua lealtà ad Allah, deriva dall’islam il suo stile di vita, e si sforza di innalzare la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della terra di Palestina”, interpretabile come un impegno solenne a non riconoscere l’esistenza di Israele; oppure l’art. 32, in cui si attribuisce credibilità e verità storica ad un fantomatico piano per il dominio globale degli ebrei contenuto nei Protocolli dei Savi di Sion – il quale è in realtà un documento con finalità di propaganda antisemita prodotto probabilmente dalla polizia segreta russa tra 1903 ed il 1905, riadattando un libello scritto contro Napoleone III nel 1864 -; all’art. 14, il movimento di resistenza islamica individua chiaramente la strategia per la liberazione della Palestina storica nella necessaria azione concomitante dei palestinesi, degli arabi e dell’intero mondo islamico, indicando la questione nazionale palestinese come parte integrante della Jihad, ovvero parte integrante degli obiettivi che ogni musulmano si deve dare nella sua tensione verso l’adesione ai precetti dell’Islam. Nello statuto di Hamas, tutta la Palestina storica è considerata un waqf, un bene comune, proprietà di Dio, inalienabile e soggetto al diritto coranico.

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La fine del sogno unipolare degli USA

Il dibattito per il progetto del Greater Middle East, la macroregione musulmana che avrebbe dovuto essere guidata alla democrazia ed allo sviluppo dall’esempio della Repubblica turca, si impantanò in pochi mesi, tra gennaio e luglio del 2004, portando a conclusione il progetto unipolarista della presidenza di G.W.Bush e mettendo in evidenza le nuove soggettività politiche del mondo arabo. Una cronistoria per ricostruire un passaggio cruciale della storia recente del Medio Oriente, prima dell’avvento delle rivoluzioni arabe.

Nel primo decennio dopo l’11 settembre 2001, i piani dei neo conservatori americani per imporre un ordine unilaterale al sistema di relazioni e scambi globale, cercando di subordinare istituzioni sovranazionali (come l’ONU, il WTO, il FMI, l’Unione Europea, la NATO, etc.) e stati nazione, poteri aristocratici e sistemi di regolazione finanziaria, sono naufragati miseramente con il fallimento della “guerra al terrore”. Con la fine dell’unilatelarismo, e degli Imperialismi che hanno caratterizzato la storia del ‘900, l’evento geopolitico che sta mutando gli equilibri strategici, anche nei paesi in via di sviluppo e nel mondo arabo/islamico, è la costituzione di una governance globale, costituita da un mix di istituzioni, autorità nazionali e sovranazionali, attori sociali ed economici. Questo fenomeno transnazionale sta nei fatti riponendo nel cassetto, al momento, anche le ultime residue speranze euro-americane, basate su una riorganizzazione del sistema delle relazioni internazionali improntato sulla forma del multipolarismo classico.

Il clamoroso fallimento politico e militare della strategia per l’invasione ed il controllo dell’Iraq e dell’Afghanistan ha mostrato tutti i punti deboli del cuore della dottrina di Donald Rumsfeld (ex segretario alla Difesa di G.W. Bush), i cui piani militari, fondati sull’uso di armi tecnologicamente sofisticate e su un basso numero di truppe coinvolte, non hanno retto l’impatto con le resistenze locali e si sono scontrati contro l’evidenza. Nel labirinto metropolitano di Baghdad, l’esercito di occupazione USA, caratterizzato da giovani, poco più che mercenari, anche disponendo di un notevole vantaggio strategico e tecnologico, non è riuscito a sconfiggere milizie irregolari e male equipaggiate.

Lo slittamento del conflitto nell’orrore, causato dagli attacchi suicidi, in un conflitto contro nemici invisibili, ha letteralmente neutralizzato qualsiasi strategia americana volta ad imporre un’egemonia culturale, oltre che politica, sull’Iraq, pilotando dall’esterno la riorganizzazione in chiave liberale di ciò che rimaneva di una forma di stato, secolarizzato, ispirato al socialismo arabo e laico, in  una società occupata militarmente. L’invio massiccio di truppe, nella seconda fase della guerra, ed il soccorso della consulenza degli esperti israeliani, non ha cambiato significativamente lo scenario, che è rimasto quello di un fallimento strategico e sociale, costato oltre 1500 miliardi di dollari e decine di migliaia di vittime, all’origine dell’attuale crisi economica, finanziaria e politica, che ha minato alle fondamenta anche la credibilità del primato morale degli USA sui diritti civili, come hanno mostrato al mondo le immagini delle torture inflitte ai detenuti nelle prigioni di Abu Ghraib, e le detenzioni illegali a Guantanamo.

La governance globale è un processo incompatibile con un modello fondato sulla centralizzazione del comando. Se osservata sul piano delle decine di attori che possiedono ed esercitano dei poteri, capaci di influenzare la politica, l’economia e le società globali, la parvenza multipolare del mondo attuale svanisce, lasciando sul piano politico poco più che dei simulacri statuali. Se Cina, India, UE, USA, Russia e Giappone, possiedono la metà della popolazione mondiale, il 75% del PIL mondiale e l’80% della spesa militare del pianeta, nel nuovo sistema di relazioni globale gli Stati-nazione stanno perdendo progressivamente il monopolio della sovranità, ed hanno già perso il controllo di alcuni dei loro poteri tradizionali, soprattutto nell’ambito dell’economia e della finanza, sopraffatti da un’organizzazione delle relazioni e delle reti sempre più irriducibile alle geometrie ed alle cartografie convenzionali. 

Il vero “nuovo ordine” globale si sta formando all’interno degli stati, oltre che al loro esterno, e si basa su pratiche di negoziazione, coordinamento e pianificazioni consensuali che funzionano solo quando una pluralità di attori statali e non statali, economici, istituzionali e sociali, concertano il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Il processo decisionale delle politiche che si collocano su scala globale non può quindi che basarsi sull’intesa tra i diversi attori coinvolti.

A fare le spese di questa nuova visione delle articolazioni di potere del mondo è stato, per il momento, il progetto per un New American Century. Il programma del think tank, creato nel 1997 per definire le strategie di un “nuovo secolo americano”, era stato elaborato da Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz (ex segretario alla Difesa), Richard Perle e dal capo dei neo-conservatori, Bernard Lewis, alla ricerca di una risposta su come gli USA avrebbero potuto continuare a dominare il mondo, e cominciò il suo dispiegamento ufficiale poco dopo l’11 settembre 2001.

Il progetto per il nuovo secolo americano ha esercitato una influenza decisiva sulla politica estera dell’amministrazione di G.W.Bush, ed aveva focalizzato gli interessi USA in Medio Oriente sin dall’inizio, anche durante l’amministrazione Clinton, contribuendo alla stesura dell’Iraq Liberation Act (H.R.4655) dell’ottobre 1998, nonché fornendo consulenza strategica al governo israeliano. In seguito, l’incredibile sequenza di fallimenti diplomatici prodotti dalla visione strategica dei neo conservatori, attuata dall’amministrazione G.W.Bush, si è disseminata in un arco temporale che ha raggiunto il suo culmine nel 2005, quando a Mar de la Plata, in un summit di capi di governo dei paesi latino americani, Brasile ed Argentina guidarono la decisione di rigettare la proposta di un accordo con gli USA per la creazione di un’area di libero scambio sui prodotti agricoli, mandando a monte il progetto NAFTA e ciò che rimaneva della dottrina Monroe. Ma il ridimensionamento dei piani della destra statunitense era cominciato, in modo evidente, sullo scacchiere medio-orientale, già nei primi mesi del 2004, quando il mondo diplomatico entrò in subbuglio per la pubblicazione del progetto per un “Greater Middle East” (“più Grande Medio Oriente”), formulato da Zbigniew Brzezinski, geostratega rivale di Henry Kissinger, advisor per la sicurezza nazionale dell’amministrazione USA.

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