Mario Appignani, detto Cavallo Pazzo, primo culture jammer italiano

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Appignani (Cavallo Pazzo) alle spalle di Pasolini

Settembre 1991. Tutto pronto per la serata finale del 48° festival del Cinema di Venezia e per la consegna dei Leoni d’oro. La diretta da Piazza S.Marco,  trasmessa in eurovisione, vede nel parterre ospiti d’eccezione, con mezzo cinema italiano presente, oltre ad autorevoli esponenti del cinema straniero, tra cui i registi ed attori in concorso Nikita Mikhalkov, Manoel De Oliveira, Zhang Yimou, Gus Van Zandt, Terry Gilliam, Philippe Garrel, River Phoenix, ed altri. In prima fila siedono l’uno accanto all’altro il ministro degli esteri tedesco Hans Dietrich Genscher e quello italiano, Gianni De Michelis, e poi ambasciatori dell’India, del Giappone, dell’Indonesia e del Sudafrica.

Una celebrazione in pompa magna, con le sedie disposte nell’intera piazza, ed uno schieramento di carabinieri e polizia per garantire l’ordine pubblico. Attraverso i teleschermi di mezza Europa, dopo la sigla, un’inquadratura  panoramica di piazza S.Marco, gremita, passa dopo poco ad una più stretta sul palco sul quale avanza il Pippo Baudo nazionale, in elegante  giacca bianca e cravatta grigia su pantaloni neri. Appena il tempo però per un rispettoso inchino al pubblico, un saluto per dare inizio alla serata conclusiva, ed ecco che irrompe la figura imprevista di un uomo che si avvicina trafelato al presentatore che, sorpreso, si difende con il braccio sinistro cercando di allontanarlo dal microfono. L’uomo esclama concitatamente “Sono Cavallo Pazzo, Pippo  ti prego, ho bisogno di parlarti…ti voglio parlare Pippo, non mi mandare dalla Polizia…ti prego Pippo…ti prego, ti prego…non mi abbandonare qua…”.  Ormai tutte le telecamere sono partite ed il regista, con la tecnologia esistente all’epoca, non può effettuare un’interruzione video prima che trascorra un minuto. La scena va quindi in onda in eurovisione, in diretta, per circa una trentina di secondi, mentre sul palco gli addetti alla sicurezza si avventano con violenza sul guastatore che nel frattempo continua a gridare nel microfono di Pippo Baudo “Fammi parlare…fammi parlare…”, mentre un’opportuna inquadratura panoramica della piazza risolve poi la regia dall’imbarazzo.

L’autore dell’azione si chiamava  Mario Appignani, autoproclamatosi Cavallo Pazzo, uno degli ex leader degli Indiani Metropolitani, l’ala creativa nata tra gli odori acri dei lacrimogeni del movimento del ’77  e tra le dita minacciose a forma di P38 di quanti non avevano capito la differenza tra la seduzione paranoica del confronto militare con lo Stato ed il dislocarsi altrove e nomadicamente. L’interruzione della diretta televisiva causò un black-out di ben sei minuti, un’enormità se si considera la compressione spazio temporale dei tempi televisivi, dove non solo non è ammesso che lo spettacolo venga contraddetto da nessuno, ma dove il tempo spettacolare stesso è il tempo del consumo.

Un anno dopo Appignani riuscì a ripetere l’impresa, interrompendo per pochi secondi l’inizio della prima serata del Festival di Sanremo.   Poco dopo la sigla iniziale, mentre Pippo Baudo stava salutando il pubblico, Cavallo Pazzo entrò in scena gridando “Sono Cavallo Pazzo, questo festival è truccato e lo vincerà Fausto Leali!”. La scena andata in diretta mostrò poi il servizio d’ordine che trascinava via Appignani aggrappato al braccio di un imbarazzatissimo Baudo, il quale divincolandosi dalla stretta esclamava “Ecco fatto! Abbiamo ripetuto Venezia!”, dichiarando successivamente che non era assolutamente un personaggio che si portava dietro, scritturato da lui.

I due episodi, non gli unici della carriera di guastatore di Cavallo Pazzo, sono sicuramente da considerarsi ai vertici delle azioni di culture jamming o sabotaggio televisivo messi in atto in Italia, ed erano stati preceduti da almeno un’altra irruzione durante una diretta dal Castello Sforzesco di Milano, una trasmissione sulle sfilate di Moda milanese, in cui Appignani riuscì a rubare il microfono alla conduttrice Enza Sampò per poi non dire niente altro che “Sono Cavallo Pazzo, devo dire una cosa…devo dire solo una cosa…e fatemela dì…”, mentre la regia cambiava rapidamente inquadratura e l’audio mandava in onda i rumori del servizio di sicurezza che portava via il guastatore. Anche in questa azione, durata pochissimi secondi, il vero obiettivo era il conduttore del programma, costretto a ricondurre professionalmente nell’indeterminato l’attenzione dei telespettatori che cercano nel suo volto, nella sua espressione, nel suo sguardo, nei tic, i cenni e le tracce per fugare dubbi su quella che viene inevitabilmente interpretata come una catastrofe della comunicazione.

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Il subvertising incosciente di Cavallo Pazzo va ascritto al senso dell’effetto comico, che fa la differenza quindi. Le sue performance, le sue irruzioni televisive,  sono dell’ordine della rottura del codice della narrazione che cessa di essere falsificante e viene spiazzata dall’irruzione dell’Evento nell’Evento, in cui la potenza del falso (Evento) viene tagliata e diviene tutt’uno con l’eternità del vero (Evento).

Ogni uomo deve fare una scelta nella propria vita, la mia è stata questa: ho voluto essere un emarginato tra gli emarginati. Un vincitore tra i vinti. Sono un guerriero stanco ma non prono, lo confesso, e l’urlo in faccia al mondo: “Fermate il treno, io sono già arrivato al capolinea”.  

(Dal Diario da Rebibbia, di Mario Appignani pubblicato in Assalto alla Diligenza, quando Appignani rinacque Cavallo Pazzo, di Marco Erler)

Inutile cercare tra le memorie di Mario Appignani un disegno cosciente delle sue azioni, per quanto estremamente complesse per la loro attuazione, diaboliche per la capacità di eludere la sorveglianza, anche quando le stesse azioni erano annunciate, o per il significato simbolico che assumevano.

Autore di una relativamente fortunata ed acerba autobiografia, pubblicata a vent’anni, all’inizio degli anni ’70, con la prefazione di Marco Pannella, “Un ragazzo all’inferno”, in cui raccontava la sua vera storia di trovatello, tra carceri per minori e marchette, il personale/politico di Appignani lo ha visto per due decenni presente ovunque vi fosse una telecamera o un fotografo, negli eventi mondani romani dove riusciva ad intrufolarsi. Cavallo Pazzo era conosciuto non solo nei dintorni di piazza Navona, ma anche tra i leader politici e personalità del cinema e della cultura che spesso venivano letteralmente pedinati, subendo anche degli assalti, come capitò ad Alberto Moravia, che fu schiaffeggiato pubblicamente da Appignani, a Campo de’ Fiori.

La ripetizione delle incursioni, spesso annunciate,  o clamorose, fanno parte integrante di una vicenda personale che si è incrociata con la politica fin da giovanissimo, come la prima, nel 1974, quando Appignani, non ancora autoproclamatosi Cavallo Pazzo, minacciò di buttarsi nel Tevere da un ponte protestando contro il questore Macera per i procedimenti penali a suo carico, iniziati sin dal movimento studentesco del 1969, quando fu arrestato la prima delle 41 volte della sua carriera, subendo anche un violento pestaggio nel carcere di Rebibbia.

A partire dal 1977, e l’incontro con l’area creativa degli Indiani Metropolitiani, Mario Appignani e Marco Erler, rispettivamente Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa, diventeranno l’espressione dell’agitazione non violenta, promuovendo le manifestazioni antinucleariste di Montalto di Castro, il festival della poesia beat di Roma del 1979, intervenendo diverse volte al festival del cinema di Venezia, come nell’agosto del 1979, quando interruppero la proiezione di un film americano, vestiti da indiani, al grido “Questo film è una porcata! It’s a pig movie! Non applaudite, per favore! Per voi il cinema sarà un altro Vietnam!” – in quell’occasione Cavallo Pazzo si arrampicò su di un pennone e si strofinò la bandiera americana sul culo -, oppure nella contestazione al festival di Spoleto del 1980, quando,  complice la compagnia di Bruno Colella, Cavallo Pazzo entrò in scena durante la rappresentazione del Lebbroso, diretta dal patron del festival Giancarlo Menotti, irrompendo nell’azione scenica proprio nel momento in cui sarebbe dovuto entrare il Lebbroso, con una gruccia di legno e fasciato come una mummia, provocando scompiglio tra il pubblico. Menotti ed il tenore accusarono un malore, mentre attori e guardie inseguivano Cavallo Pazzo che rovinò sui leoni di cartapesta della scenografia, distruggendoli, svelando così, involontariamente, la pochezza scenica di una rappresentazione dai costi elevati e dai prezzi dei biglietti proibitivi. Oppure quando riuscì ad eludere la sicurezza delle guardie svizzere riuscendo ad arrivare ad un metro dal Papa, a piazza S.Pietro, gesticolando e gridando frasi incomprensibili. Cavallo Pazzo ha conquistato minuti di fama e notorietà sui media anche quando si è proclamato figlio segreto di Renato Guttuso e quando scrisse ad un quotidiano di essere depositario della verità sulla morte di Pasolini.

La storia di Mario Appignani è quella di un ragazzo di borgata della Roma degli anni ’70, tra zaccagnate sulle vene e mangiate nelle trattorie dei tipografi, tra nottate tra le piazzette trasteverine, come piazza S. Calisto, e incontri con celebrità…l’incontro con il personaggio Cavallo Pazzo è figlio sicuramente di un tempo che il movimento del ’77 ha rappresentato efficacemente nella lotta per i bisogni repressi dalle ideologie, nel risalto al tempo presente, al qui ed ora, alla liberazione degli spazi e l’abbattimento delle barriere, nell’autoriduzione agli spettacoli e concerti, nell’innovazione nella comunicazione e nei linguaggi, con le radio libere, i fumetti, il detournement dei messaggi pubblicitari e dei murales, l’estremizzazione del quotidiano condotto fino al non-sense, lo “stile di vita” come attualizzazione delle tendenze antagoniste. Prima ancora che arrivasse il Punk.

Persino la breve militanza di Appignani nel partito radicale non evitò a Marco Pannella, Emma Bonino e Francesco Rutelli, l’imbarazzo di un intervento di 40 minuti al congresso di Genova, nel 1979, davanti a 500 delegati, in cui accusò pubblicamente il gruppo dirigente si essersi intascati 250 milioni di lire dell’epoca in falsi rimborsi elettorali. Il congresso si concluse poi con la sconfitta dell’area di Marco Pannella.

Le esplosioni insurrezionali di Cavallo Pazzo gli causarono arresti e carcere, scontato diverse volte, come la condanna inflittagli nel 1990, quando era già malato di AIDS, per una detenzione di nove mesi più un residuo di pena che  ha vissuto e documentato in una dolorosa memoria.

Quale residua speranza può avere un detenuto continuamente sbattuto in isolamento? Come si può pensare di riaprire un cuore alla speranza murandolo vivo e lasciandolo marcire in questa barbara istituzione? La prima volta che finii rinchiuso in una cella di punizione, nella cosiddetta “liscia”, senza branda né materasso né coperte, senza niente di niente, neanche un vaso per pisciare o una finestra dove poter andare di corpo in santa pace, fu all’età di 18 anni, 1972, nel carcere romano di Regina Coeli, perché avevo urlato ad una guardia tutta la mia disperazione; era la mia prima sortita in un carcere italiano. Prima mi pestarono un po’ – ridevano, mentre un gruppo mi sferzava calci e pugni allo stomaco, sotto i cogliono, nel culo – io imploravo tremante di paura ed in preda a convulsioni, chiedevo di smetterla; non avevo fatto  nulla di male, ma la perfida squadretta continuava implacabile a picchiarmi, e sfogare l’istinto animalesco su di un ragazzo mingherlino. Gli piaceva, lo notavo dagli sguardi sadici e masochisti, pieni di eccitazione, finchè colpito proprio  sotto il mento mi uscì il sangue dalla bocca per un calcio sferzato da uno degli anfibi in dotazione agli agenti di custodia (mi partirono un paio di denti). Poi il pestaggio finì. Mi denudarono completamente, fui chiuso in un buco di due metri per tre: cella liscia “Villa Paradiso”

(Dal Diario da Rebibbia, in Assalto alla Diligenza, quando Appignani rinacque Cavallo Pazzo, di Marco Erler)

Le ultime incursioni di Cavallo Pazzo negli anni ’90, benché malato terminale di Aids, lo hanno immortalato nelle invasioni di campo, durante le partite della sua amatissima AS Roma, in casa ed in trasferta, accompagnato dagli applausi degli stadi, come nell’irruzione durante Roma-Brescia del 1994, imprese che comportavano uno sforzo fisico enorme per lui, finchè il suo corpo non ha ceduto, nel 1996.

Memorabile un’intervista andata in onda al TG2, poco tempo prima di morire,  in cui Cavallo Pazzo, passeggiando per Trastevere con l’intervistatore, raccontando della sua passione si rivolge davanti alla telecamera ad un tifoso della Lazio:

– “Che ce l’avete voi d’a Lazio uno come Cavallo Pazzo?”
– (Il tifoso, gagliardamente) “…e ce l’avemo si!”
– “Ma che c’avete?!? Ma che c’avete?! A zozzoni!”

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“Nei silenzi lontani/Nei giochi infiniti/Beata maledetta…incoscienza! Dove l’hai portato per sempre…”

Che altro dire di Cavallo Pazzo? Figlio di un’epoca sconvolta dall’eroina e dalla violenza, forse nel diario scritto in carcere e consegnato a Marco Erler può essere trovata, tra le righe, la poesia della vita di un ragazzo morto a 41 anni. Una poesia che si avvita sull’affetto nei confronti della figura di Pier Paolo Pasolini, una delle personalità che più di tutti venerava con un profondo rispetto reverenziale, come l’espressione alle spalle del poeta sembra dire nell’immagine di una vecchia foto dell’inizio degli anni ’70 :

Proprio in quel cuore, quel centro che pare essere scomparso dalla mia poesia. Eppure l’ho composto, l’avevo scritto, c’era la volta passata, dunque dov’è svanito? Nel nulla, forse, ma non ho intenzione di rassegnarmi, voglio capire!

Quanto ha colto tutti di sorpresa la sua prematura e cruenta scomparsa lo si capisce ancor più oggi, quindici anni dopo: sconcerta quel corto circuito tra l’uomo privato e lo scrittore pubblico. Colpisce che chi si è addossato il suo omicidio sia un sottoproletario deviante verso l’omologazione, proprio quella tanto da lui biasimata. Come un domatore di tigri e leoni che in ogni momento potrebbe essere sbranato, così lui trattava il suo rapporto di ricerca con la verità: forse non si rendeva del tutto conto, attaccando i potenti del Palazzo, di quanti rischi potesse correre, riteneva la cosa necessaria e basta.

Era poliedrico e coerente insieme nelle discipline di cui era maestro: poeta, cineasta ed anche pittore. Nelle sue argomentazioni riusciva ad offrire, oltre a lucide analisi, anche e soprattutto un respiro cosmico che abbracciava tutte le cose.

Aveva profeticamente individuato che l’irrealtà si stava sostituendo alla realtà, sicchè la sua ribellione diveniva più arrabbiata e chiedeva conferenze stampa per poterlo dimostrare. Voleva anche comprendere se, in prima persona, avesse potuto arginare i mass media senza esserne travolto.  

(Dal Diario da Rebibbia, in Assalto alla Diligenza, quando Appignani rinacque Cavallo Pazzo, di Marco Erler)

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