Le centrali nucleari in Italia. Il caso del Garigliano

Centrale Nucleare del Garigliano

Qual era il contesto in cui fu realizzata la prima centrale elettronucleare italiana? Quali erano le tecnologie disponibili all’epoca? Dove sono stati trasferiti i rifiuti nucleari della centrale del Garigliano? Quali sono state le conseguenze per la popolazione del “cratere nucleare”?

Dopo decenni di battaglie ambientaliste, solo da qualche anno ha iniziato a diradarsi il velo di silenzio sull’intera vicenda dell’ecomostro nucleare del Garigliano, chiuso nel 1978 a seguito dei ripetuti incidenti, di cui a tutt’oggi si possiede solo una documentazione parziale.

Ancora oggi, l’area del cosiddetto “cratere nucleare” in cui risiedono diverse decine di migliaia di persone – compresa tra i comuni di Sessa Aurunca, Roccamonfina, Cellole e Mondragone, sul versante della provincia di Caserta; e Castelforte, SS. Cosma e Damiano, Minturno, Formia e Gaeta, nel basso Lazio, a nord del fiume Garigliano – vive nella rimozione di quello che può avere prodotto sulle vite, sui prodotti della terra e nel mare, la presenza di un impianto, costruito a pochi metri dalle sponde di un fiume, in una pianura nota fin dall’antichità per le periodiche esondazioni fluviali ed allagamenti, e per i terreni paludosi. Un’area vulcanica e sismica (grado 0,75-0,100) la cui già elevata radioattività naturale non è mai stata presa in dovuta considerazione né durante la fase di progettazione della centrale elettronucleare, né durante il suo funzionamento.

L’assenza di un dibattito sul nucleare, da diversi anni a questa parte, dopo il referendum del 1987, così come l’allentamento della cultura ambientalista, andato di pari passo con la quasi estinzione della sinistra ecologista, ha portato una parte consistente dell’opinione pubblica a non conoscere più alcuni aspetti controversi legati all’avventura nucleare in Italia, così come l’abbiamo appresa. Una storia che invece merita di essere conosciuta fin dall’inizio.

La scelta del nucleare civile era legata ad interessi strategici degli USA

La scelta di realizzare centrali nucleari, in tempo reale con le tecnologie disponibili all’epoca, nello stesso periodo in cui venivano realizzate negli USA ed in URSS, non proveniva affatto dall’applicazione di ricerche svolte in Italia ma dalla necessità, da parte dell’amministrazione Eisenhower, di scaricare una parte degli enormi costi dovuti alla corsa agli armamenti nucleari sui paesi europei, all’epoca alle prese con la ricostruzione post bellica sostenuta dal piano Marshall. Per il reperimento dei combustibili per le centrali, l’Italia (come il Giappone) si sarebbe inoltre legata ad una dipendenza ancora maggiore dagli USA.

A battezzare l’ingresso dei nuovi alleati nel club nucleare, in piena guerra fredda, fu il primo test della bomba all’idrogeno (la bomba H) attuato dall’Unione Sovietica, nel 1952, pochi mesi dopo l’analogo test degli americani, e la successiva morte di Stalin, nel marzo 1953. La velocità con la quale i sovietici dimostravano di essere al passo con la corsa agli armamenti spinse il presidente Eisenhower a pronunciare il famoso discorso Atoms for Peace, nel quale propose all’assemblea delle Nazioni Unite di creare un’organizzazione per promuovere l’uso pacifico dell’energia nucleare, il cui seguito furono quattro conferenze internazionali organizzate dall’ONU, a partire dal 1955, nelle quali centinaia di scienziati di 73 paesi ebbero modo di scambiarsi conoscenze, prima segrete, sui progressi scientifici legati al nucleare.

Negli Stati Uniti, in quegli anni, a gestire la ricerca militare e civile del nucleare era l’USAEC (United States Atomic Energy Commission), l’agenzia istituita dal Congresso degli Stati Uniti con l’Atomic Energy Act del 1946, per controllare lo sviluppo della scienza e della tecnologia applicata all’energia atomica. L’AEC rilevò le operazioni del “progetto Manhattan” e rimase una costosissima agenzia sotto stretto controllo governativo, gestita da tre servizi segreti militari.

L’AEC divenne il principale promotore degli investimenti privati per la produzione dell’energia nucleare per scopi civili, e per il “Progetto Sherwood”, un programma segreto che aveva come obiettivo, attraverso i reattori di fusione, di fornire anche sorgenti di Tritium (Trizio) alle armi termonucleari.

Le assemblee Atoms for Peace organizzate dall’ONU furono anche l’occasione per promuovere, tra le delegazioni presenti, le lobby interessate a sponsorizzare il nucleare civile.

Una testimonianza della trafelatezza con la quale gli industriali italiani si lanciarono su questo “business” è agli atti delle conferenze, con l’intervento dell’ing. Valletta della FIAT il quale, preso dall’entusiasmo, nella sua relazione all’assemblea annunciò addirittura che la FIAT stava acquistando un reattore nucleare dalla Westinghouse Electric Corporation, e che avrebbe realizzato una centrale in corso Massimo D’Azeglio a Torino, lungo il Po, esattamente di fronte alla collina di Moncalieri, dimostrando così tutta l’ignoranza e la tracotanza dell’epoca sui rischi connessi al ricorso all’energia nucleare per uso civile.

Nell’immediato secondo dopoguerra l’Italia, paese tradizionalmente povero di risorse energetiche, stava affrontando la sfida della ricostruzione post bellica con una scarsa disponibilità di materie prime ed una rete distributiva dell’energia elettrica inadeguata alle previsioni di crescita, in mano a società private e litigiose, mentre il dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica era contrastato fortemente dalla destra e dai gruppi industriali del settore energetico.

L’industria elettrica italiana, che fin dalla sua nascita si era caratterizzata per la presenza di produttori “privati”, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, rinasceva così grazie agli aiuti del piano Marshall.

In un’epoca che viveva grande fiducia e speranza nel progresso scientifico, dopo le conferenze organizzate dalla presidenza USA, le industrie private italiane dell’energia elettrica, per trattare direttamente la realizzazione delle centrali nucleari, si mossero febbrilmente in un settore caratterizzato dall’assenza totale di leggi ed aperto ad ogni tipo di scorribanda.

Nel giro di poco tempo, nella seconda metà degli anni ’50, furono così costituite delle società di diritto privato per trattare direttamente con gli americani e con gli inglesi l’acquisto dei reattori: la Edisonvolta costituì la SELNI (Società Elettronucleare italiana), l’Eni che controllava già attraverso la Snam il 35% del mercato del metano e degli oli combustibili decise di entrare nel mercato dell’energia elettrica e diede vita alla Agip Nucleare, ed alla SIMEA (Società italiana meridionale per l’energia atomica) a compartecipazione Agip-Nucleare e IRI, mentre il gruppo IRI-Finelettrica creò la SENN, (Società Elettronucleare Nazionale) nel 1957, di cui l’85% delle azioni era costituito da aziende del gruppo Finelettrica, Finmeccanica, Finsider e per il restante 15% da società private.

Per la realizzazione della centrale elettronucleare del Garigliano, la prima costruita in Italia, la BIRS, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (meglio nota come Banca Mondiale, o World Bank) erogò, per la prima ed unica volta nella sua storia, un finanziamento di 40 milioni di dollari dell’epoca (nel 1958) in favore dello sviluppo dell’energia nucleare a “scopi pacifici”.

Lo studio della Banca Mondiale prevedeva che la centrale nucleare fosse integrata con un esteso sistema di distribuzione in grado di consentire la realizzazione di un impianto superiore a 100MW; che l’impianto venisse realizzato in un paese povero di combustibile fossile e dal basso potenziale idroelettrico, ma con una sufficiente disponibilità di capitali; il paese avrebbe dovuto eseguire i necessari accordi intergovernativi per assicurarsi una fornitura continua del combustibile attraverso l’importazione.

Il prestito venne poi concesso alla Cassa per il Mezzogiorno e da questa trasferito alla SENN, Società Elettronucleare Nazionale, creata ad hoc ed incaricata della realizzazione dell’opera. L’intera operazione, fin dall’inizio, si distinse per il suo carattere sperimentale, sia sul piano energetico che finanziario.

Le tecnologie usate, negli anni ’50, per gli impianti nucleari in Italia non erano mai state sperimentate adeguatamente.

Può apparire singolare che, in piena Guerra Fredda, a pochi anni dalla nascita della NATO (1949) e dalla fine del secondo conflitto mondiale, in un paese come l’Italia, che aveva solo dei centri di fisica teorica, i cui migliori scienziati erano emigrati all’estero durante la guerra, a qualcuno saltasse in mente di vendere tecnologia nucleare per produrre energia elettrica.

Le tecnologie conosciute negli anni ’50 per produrre energia elettrica dal “nucleare” erano sostanzialmente tre e apparentemente semplici, in quanto l’energia, contrariamente a quanto si pensi, è prodotta in realtà dal vapore, non dall’atomo. Una tonnellata di uranio naturale, il combustibile maggiormente usato, può produrre più di 40 milioni di kWh, per produrre le quali servirebbero oltre 16.000 t di carbone o 80.000 barili di petrolio. L’uranio di conseguenza agisce come combustibile per trasformare l’acqua in vapore. I reattori disponibili all’epoca erano di tipo:

  • BWR (Boiling Water Reactor), nei quali l’acqua viene immessa direttamente nel recipiente del reattore, il cui combustibile è principalmente uranio arricchito. A contatto con le barre di uranio “arricchito” l’acqua diventa vapore che viene canalizzato per azionare una turbina, la quale produce elettricità attraverso un generatore. L’acqua utilizzata viene espulsa sotto forma di vapore nell’atmosfera, attraverso un camino, e sotto forma di liquido negli stessi corsi d’acqua da dove viene prelevata.

  • PWR (Pressurized Water Reactor), in cui il procedimento è analogo, con la differenza che l’acqua non viene immessa direttamente nel recipiente del generatore ma passa in canaline esterne. A contatto con il calore del nocciolo del reattore l’acqua diventa vapore e produce energia. Questi impianti sono diventati nel tempo i più diffusi del mondo.

  • GCR Magnox, i reattori raffreddati a gas realizzati dagli inglesi, che utilizzavano come combustibile l’uranio naturale (in barre racchiuse in una lega chiamata appunto Magnox), anidride carbonica come estrattore del calore, barre di acciaio al boro come controllo e barre di grafite come riflettore e come moderatore.

L’acqua è quindi l’elemento centrale per la produzione di energia in questo tipo di impianti, i quali per essere realizzati richiedono di essere ubicati presso laghi e grossi corsi d’acqua naturale.

Gli impianti a tecnologia più “vecchia”, negli anni ’50, i BWR, erano in realtà degli impianti sperimentali realizzati dalla General Electric Co., sviluppati dalle ricerche effettuate dagli inizi degli anni ’50 sui generatori Borax creati negli Idaho National Laboratories, dei quali la seconda generazione è stata la prima a produrre energia per uso civile e commerciale, ad Arco, Idaho (USA), un impianto per soli 6.4 MW che ha funzionato fino al 1956.

Il CNRN (Comitato Nazionale di Ricerche sul Nucleare), creato nel 1952 all’interno del CNR, sotto la direzione del prof. Felice Ippolito, diede un impulso determinante per favorire la scelta nucleare, fino a promuovere vere e proprie campagne giornalistiche allo scopo di fare pressione sul governo. L’ing. Ippolito, che in seguito aderì al PSDI, non si limitò però solo a fare pressione sul governo attraverso i quotidiani, essendo il protagonista principale della trattativa con la BIRS per la realizzazione della centrale del Garigliano, favorendo la creazione di una società ad hoc, la SENN (Società Elettronucleare Nazionale).

Nel 1964 la controversa carriera di Ippolito fu fermata al suo apice, quando era consigliere d’amministrazione dell’ENEL (da poco costituita), per un incidente di percorso: fu arrestato e poi condannato ad 11 anni e 4 mesi (poi amnistiato dal presidente della Repubblica Saragat) per una serie di reati, ben 47, difficilmente elencabili e tutti collegati al suo ruolo nel CNRN per costruire una vera e propria lobby politico-imprenditoriale.

Nel giro di pochi anni, in Italia, vennero messe in cantiere tre centrali nucleari, con tutte e tre le tecnologie esistenti all’epoca (il BWR al Garigliano, il PWR a Trino Vercellese, il GCR Magnox a Latina), per un potenza totale di 500MW, una potenza notevole se si considera che nel 1961 la potenza istallata negli Stati Uniti era di 466,3 MW e quella nell’URSS, nello stesso periodo, era pari a 611,5 MW.

L’impianto di tipo PWR da 134 MW (poi portato a 260 MW), realizzato dalla SELNI (Società Elettronucleare italiana) a Trino Vercellese, su un brevetto della Westinghouse International Electric Company, ed entrato in funzione nel 1964, fu la centrale più potente del mondo della sua epoca, analogo a quello della centrale statunitense di Yankee Rowe.

Nel 1957 l’ENI di Mattei, attraverso l’Agip nucleare, si rivolse invece alla Gran Bretagna, muovendosi come suo solito in maniera diversa da quella dominante, ordinando alla britannica Nuclear Power Plant Company un reattore del tipo Magnox della potenza di 200 Mw, realizzando in seguito la centrale nucleare di Latina. Nel 1959, per affrontare la necessità di disporre dell’energia nucleare e per non dipendere troppo dall’estero, Mattei costituì poi la società Somiren (Società minerali radioattivi energia nucleare) che scoprì un discreto giacimento di minerale uranifero a Novazza (provincia di Bergamo) e altri minori in Val Maira in Piemonte. La centrale di Latina fu inaugurata nel 1963 e fu la prima ad entrare in funzione. Enrico Mattei però non fece in tempo per vederla, perché morì prima in un misterioso incidente aereo.

 La centrale del Garigliano

La centrale nucleare del Garigliano iniziò il suo funzionamento commerciale nel giugno 1964, ottenendo però solo nel 1967 la “licenza di esercizio”; per tre anni quindi è stata abusiva.

Nel periodo compreso tra il 1968 ed il 1975, per produrre maggiore energia, l’Enel sostituì 72 delle 208 barre di Uranio del nocciolo del reattore con barre di Plutonio (tempo di dimezzamento 24mila anni, dose letale 1/10 di milligrammo).

Il camino della centrale del Garigliano, in funzione, immetteva nell’atmosfera 120.000 metri cubi di sostanze aeriformi ogni ora. L’espulsione del vapore nell’aria veniva trattata dai filtri posti alla base del camino. Secondo la stessa Enel e l’Enea, i filtri erano efficaci al 99,97%. Il restante 0,03% veniva quindi espulso in stato non puro. Calcoli alla mano fanno quindi 36 metri cubi all’ora, moltiplicate per 15 anni, di sostanze venute a contatto con le barre di uranio arricchito nel reattore, liberate nell’aria e nell’ambiente circostante. A pagina 160 del “Rapporto Annuale sulla radioattività ambientale” curato dal CNEN (1975) si può leggere infatti che, nella centrale del Garigliano, “Gli incondensabili, provenienti dal condensatore (135Xe, 138Xe, 133Xe, 87Kr, etc.), dopo aver attraversato un filtro assoluto in lama di vetro (efficienza pari al 99,97%) per particelle con diametro superiore a 0,3 Mm, vengono scaricati nel camino”.

La centrale ha funzionato solo per 15 anni, appena 5 anni in più della coetanea centrale di Latina, collezionando almeno ben 12 incidenti documentati dagli antinuclearisti fino al 1978 (un altro, anche se di lieve entità, è documentato nei Kissinger’s Cables di Wikileaks), quando la gestione è passata dall’Enel all’ENEA (Ente Nazionale per l’Energia Nucleare).

A partire dal 1972, in base alla raccolta dati effettuata dagli attivisti locali, si noterebbe un progressivo aumento dei casi di cancro, leucemie e malformazioni congenite nell’area del “cratere nucleare”. Tra gli incidenti: nel 1972 e nel 1976, si verificarono l’esplosione del sistema di smaltimento dei vapori e gas incondensabili, con rottura dei filtri e rilascio di emissioni nell’atmosfera.

Nel 1976 avvenne anche l’esondazione del fiume, un grave incidente che si ripeterà dopo la “chiusura” della centrale il 14 novembre 1980, quando il livello del fiume raggiunse metri 8.23. In entrambi i casi l’acqua del fiume Garigliano entrò nell’area della Centrale, costruita a pochi metri dalle sponde, fino ai locali dei depositi di rifiuti radioattivi e negli impianti di scambio ionico dei condensati.

Il novembre del 1980 fu un periodo drammatico anche perchè pochi giorni dopo l’esondazione, il 23 novembre, ci fu pure il terremoto dell’Irpinia, evento disastroso anche per la piana del Garigliano e che aumentò l’allarme sociale sulle conseguenze di un disastro nucleare.

I depositi di condensazione, nella centrale BWR del Garigliano, erano degli impianti di filtrazione/demineralizzazione impieganti resine a scambio ionico, inseriti a bassa ed alta temperatura sulla chimica dell’acqua dei circuiti del condensato, prima che l’acqua venisse reimmessa nel fiume.

La procedura di trasferimento delle scorie radioattive nei due depositi, invece, avveniva a cielo aperto, e come acclarato dall’inchiesta condotta dopo l’eccezionale esondazione del 1980, i locali non avevano ricevuto nessun collaudo e non disponevano di pompe idrauliche, impiantate solo in seguito.

Nella relazione peritale dell’epoca redatta dai tecnici del CNEN si legge infatti: “i serbatoi T/10A e T/10B sono a cielo aperto. Tale situazione, tenuto conto che i tubi attraverso cui s’invia il concentrato sono eccentrici e che il condensato viene spinto a vapore, favorisce la formazione di spruzzi che possono depositarsi sul pavimento e sulle pareti dei locali; i serbatoi non sono posti in un “vassoio”, destinato a contenere perdite o lacrimazioni; il locale dei serbatoi che, fino a qualche tempo fa era scarsamente protetto dalla pioggia, ha mostrato di non possedere adeguata tenuta, prova ne sia che l’acqua è entrata ed è uscita sia nel corso della piena di novembre 1980, sia almeno in un’altra occasione” (si riferisce al dicembre 1976, N.d.r.)”.

Il problema delle scorie

L’assenza, tuttora, di un sito nazionale per il trattamento e la rigenerazione delle scorie radioattive, ha costituito per anni uno dei principali dubbi sul loro effettivo smaltimento, soprattutto durante il periodo di funzionamento della centrale elettronucleare del Garigliano (1966-1978).

Nel 1997 Greenpeace denunciò l’esistenza in Italia di un mercato clandestino dello smaltimento incontrollato di rifiuti, radioattivi e non, e l’esistenza di un network di operatori economici e finanziari, che con la collaborazione dei clan mafiosi, aveva tentato di smaltire illecitamente rifiuti nucleari e tossici nei paesi in via di sviluppo, oppure seppellendoli nei fondali marini.

La denuncia di Greenpeace, a cui seguì un rapporto della Legambiente, faceva riferimento ad alcune informazioni, confermate anni dopo da un pentito della ‘ndrangheta, Francesco Fonti, che confermò che le mafie tra gli anni ’80 e ’90 erano solite acquistare “carrette del mare” non solo per traffici di armi, e droga, ma anche per il traffico sostanze tossiche e rifiuti nucleari, per poi affondarle nel mediterraneo ed al largo della Somalia con il loro carico.

L’episodio più clamoroso riguardò la nave Jolly Rosso della compagnia Ignazio Messina, una società che vantava già all’epoca ottimi rapporti commerciali con la Libia, l’Egitto ed il Libano, che venne trovata spiaggiata in Calabria, senza carico e senza equipaggio, il 14 dicembre del 1990. La nave era partita da La Spezia ufficialmente con un carico di tabacco e prodotti alimentari che però non fu rinvenuto dopo lo spiaggiamento.

 Lo smantellamento della nave fu eseguito dalla compagnia stessa, in fretta e furia, su ordine del PM Fiordalisi della procura di Paola. Il mistero su cosa trasportasse la nave, sui cui traffici stava effettuando un reportage Ilaria Alpi prima di essere uccisa in somalia con Marco Hrovatin, si è poi infittito quando, nel 2009, a trecento metri dalla spiaggia di Amantea dove si arenò la nave, è stata ritrovata una cava contenente materiali radioattivi.

Nel 2009 venne invece ritrovato, al largo di Cetraro, sempre in Calabria, il relitto di una nave che si ritieneva fosse la Cunski, e che la ‘ndrangheta l’avesse affondato con un carico di fusti radioattivi. Sul ritrovamento, smentito frettolosamente dalle autorità, si aprì una inchiesta della magistratura, in seguito ad una denuncia della Legambiente. Durante le indagini morì misteriosamente il capitano di vascello Natale de Grazia, sulla cui vicenda è stato istituito un comitato che si batte per l’accertamento della verità.

Dell’esistenza dei traffici di rifiuti nucleari, gestiti dalle mafie e provenienti dalle centrali italiane, non si è mai trovata conferma effettiva. Tuttavia è lecito porsi dei dubbi sul ruolo che possono aver giocato i network criminali nella gestione delle scorie nucleari, come emergerebbe dalla ”Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia” così come è stata pubblicata sul sito del relatore on. Alessandro Bratti, nella cui ricostruzione dell’istruttoria si legge:

“Il maresciallo Moschitta, ha specificato che – in occasione dell’esame del dipendente Enea – erano in cinque ossia il magistrato Neri, due autisti, la tutela e lui stesso. Richiesto di far conoscere il nome del soggetto audito, ha così risposto:

Era l’ingegnere Carlo Giglio, il quale ha rilasciato delle dichiarazioni, con riferimento alla situazione delle centrali nucleari in Italia. A detta dell’ingegnere, si trattava di una circostanza molto delicata, critica, per non dire esplosiva. Queste sono state le sue parole. Basta leggere il suo verbale, per capire effettivamente quello che si nascondeva dietro l’affare nucleare. Avevamo un verbale molto importante e nel momento in cui non sono ritornate le schede ci siamo molto preoccupati”.

Per quanto riguarda le scorie attualmente esistenti in Italia, nell’ambito della strategia definita nei Piani Energetici Nazionali, fino al 1990, l’ENEL ha avviato al ritrattamento tutto il combustibile di Latina e parte di quello di Trino e del Garigliano. Nel 1999 è stata costituita la SOGIN (Società di Gestione Impianti Nucleari) che ha ereditato tutte le attività nucleari dell’ENEL, prima gestite dall’ENEA. La SOGIN ha ricevuto nel 2001 il mandato di esaurire i contratti di ritrattamento già stipulati (nel 1980) con l’invio al ritrattamento di ulteriori 53,3 t di combustibile; di stoccare a secco presso le centrali il combustibile residuo (circa 230 t), in attesa di smaltirlo nel deposito nazionale, non ancora istituito. La spedizione delle ulteriori 53,3 t è stata avviata nell’aprile 2003 e completata nel febbraio 2005.

Nel 2007 è stato firmato un contratto del valore di oltre 250 milioni di euro tra SOGIN (Italia) e la multinazionale francese AREVA (Ex Cogema) per il trattamento a Cap de La Hague, in Francia, del combustibile nucleare italiano. L’accordo per il trasferimento 220t di combustibili a base di uranio e 15t a base di MOX (ossidi misti di uranio e di plutonio) provenienti dalle ex centrali di Caorso, Trino e Garigliano (13t solo da quest’ultima), ha sbloccato una situazione che durava dal 1987 quando, dopo il referendum sul nucleare, le centrali furono chiuse e le scorie nucleari poste in trincea o interrate nelle centrali stesse. La Areva tratterà le scorie fino al 2025, quando i residui dovranno poi rientrare in Italia.

Dal 1966, le scorie delle centrali italiane, non esistendo in Italia impianti e siti dove trattarle, rigenerarle o rendere meno dannosi i combustibili usati, venivano trasferite alla centrale di Sellafield, in Gran Bretagna, specializzata per i combustibili dei reattori Magnox, dove venivano ritrattate, separando uranio e plutonio, e riconsegnate alle centrali italiane.

Inizialmente realizzata per rigenerare il combustibile a base di grafite delle centrali Magnox, per un totale di 800t annue, a partire dal 1976 la centrale di Cap de La Hague, in Francia, è stata messa in grado di trattare le barre di combustibile provenienti dalle centrali con reattori ad acqua leggera (LWR e MOX). La megastruttura impiega attualmente 6000 addetti su un’area di 300 ettari e gestisce la metà delle scorie nucleari mondiali prodotte.

Le operazioni di trasporto in passato, fino alla fine degli anni ’80, avvenivano senza informare le popolazioni dei rischi connessi al trasporto di materiale radioattivo, oltre che con procedure sbrigative che in alcuni casi hanno provocato degli incidenti, come ad esempio quello avvenuto nel 1982, quando un contenitore su rimorchio ferroviario spedito dalla Germania, a partire dallo scalo San Lorenzo di Roma, dove era stato instradato su su gomma, perse per strada la bellezza di 9.000 litri di acqua con cobalto 58, cobalto 60, e manganese 54.

Il trasporto delle scorie nucleari verso Sellafield avveniva via mare, con le navi gemelle Stream Fisher e Pool Fisher della compagnia Fisher James & sons, principalmente lungo la rotta tra Civitavecchia, Anzio e Barrow. Le navi venivano utilizzate anche per trasporti non radioattivi, esponendo le merci al rischio di contaminazione radioattiva. La Pool Fisher fece poi naufragio nel 1979, nei pressi dell’Isola di Wight, fortunatamente con un carico di potassio. Nell’incidente morirono 13 membri dell’equipaggio.

Conseguenze dell’inquinamento nucleare

Sull’interramento dei rifiuti nucleari, in seguito alla chiusura della centrale, circa 3.000 mc di materiali a bassa e media intensità seppellitti a 50cm di profondità nel terreno dell’area della Centrale del Garigliano, la procura di Santa Maria Capua Vetere nel mese di dicembre del 2012 ha aperto un fascicolo per disastro ambientale. Nelle indagini, coperte da segreto istruttorio, la Guardia di Finanza avrebbe sequestrato alla SOGIN i registri di scarichi liquidi ed aeriformi che sarebbero stati compilati a matita. Il nucleo sommozzatori ha invece prelevato dei campioni per le analisi nelle acque le fiume e della foce del Garigliano. Le attività di analisi, condotte dai tecnici del CISAM, organismo militare specializzato nel settore ambientale, con particolare riferimento alla difesa dalle radiazioni ionizzanti (radioattività) e non ionizzanti (onde elettromagnetiche) non avrebbe rilevato rischi per l’ambiente e per le popolazioni.

Ad oggi, nessuno studio epidemiologico è stato fatto dal Ministero della Sanità per sapere cosa è successo realmente. Mentre gli ambientalisti sono in attesa dell’avvio del registro provinciale dei tumori.

Tra i pochi dati certi, va registrato il censimento dei vitelli nati tra il 1° gennaio 1979 ed 31 ottobre 1980, tra i quali emerge il dato che su 389 capi nati nell’area A, ovvero ad 1km di raggio dalla centrale, si verificarono 12 casi di maformazione (incidenza del 3%), contro i 6 casi su 745 (0,9%) della zona B (da 1 a 6km di raggio dalla centrale; ed 1 solo caso di malformazione su 1577, nella zona C (da 6 a 40 km di raggio). Nella zona A quindi il fenomeno registrato è 33 volte più elevato che nella zona C, 9 volte più elevato nella zona B rispetto alla C.

Una relazione del 1983, sulle quattro campagne radiologiche condotte dall’ENEA tra il 1980 ed il 1982, su un’area di 1700 kmq, a firma dei ricercatori A. Brondi, O. Ferretti e C. Papucci dal titolo Influenza dei fattori geomorfologici sulla distribuzione dei radionuclidi. Un esempio: dal M. Circeo al F. Volturno”, documenta l’azione di contaminazione radioattiva, legata ai radionuclidi di cesio-137 e cobalto-60, dell’area del golfo di Gaeta a seguito dei rilasci degli effluenti liquidi della centrale del Garigliano conclude dicendo che le zone di massimo accumulo dei radionuclidi sono state individuate nell’area terminale del fiume Garigliano; per l’ambiente marino, nella fascia compresa tra le batimetrica 40-70 m e nell’interno del golfo di Gaeta.

La stessa relazione riportava che “le attività del Cesio137, nei primi due centimetri dei fondali antistanti il golfo di Gaeta, nelle aree di maggiore concentrazione, corrispondono a 7millicurie/kmq (259MBq/kmq)”, mentre gli “inventari di Plutonio 239,240 nei sedimenti erano particolarmente elevati (da 2 a 4 volte le deposizioni da fallout, pari a 81 Bq/mq a queste latitudini), sono stati rilevati nell’area fra le batimetriche di 30 e 50m”. Anche questi dati però vanno valutati tenendo conto che l’area marina interessata dalla ricerca era, ed è tuttora, attraversata dalle navi, dalle portaerei e dai sottomarini a propulsione nucleare della VI Fotta della U.S Navy, di stanza a Gaeta.

Tra il 1971 ed il 1980, dai registri dell’USL LT6, risulta che nell’ospedale “Dono Svizzero” di Formia (LT), ospedale che serviva una vasta area compresa tra i comuni di Formia, Minturno, Sessa Aurunca, Roccamonfina, Castelforte e SS.Cosma e Damiano, sono nati 15.771 bambini, tra i quali sono stati registrati 90 casi di malformazione genetiche.

Il dato relativo all’ospedale “Dono Svizzero” di Formia registra un numero progressivo di gravi malformazioni neonatali: da 5 (1971) a 6 (1974), a 12 (1976), a 13 (1978, 1979, 1980), per un totale di 90. Tra le malformazioni casi di anecefalia e numerosi casi di cardiopatia congenita, oltre che polidattilia e sindattilia, macrosomia, sindromi polimalformative da alterazioni cromosomiche, microcefalie, macrocefalie, schisi del palato, trisomie, acondroplasie, ipospadie balaniche, etc.

L’incidenza di tumori e leucemie nella piana del Garigliano, secondo i dati raccolti e pubblicati da Marcantonio Tibaldi (un ambientalista che ha dedicato 40 anni della sua vita per denunciare i danni causati dalla centrale), tra il 1972 ed il 1978, sarebbe stata del 44%.

I dati raccolti da Tibaldi nei registri comunali e parrocchiali dell’area del “cratere nucleare”, ovvero i comuni SS. Cosma, Castelforte, Minturno, e Formia (provincia di Latina), e frazione S.Castrese di Sessa Aurunca (a 1 km dalla centrale), indicavano che mentre tra il 1946 ed il 1964 (prima del funzionamento della centrale) su 5895 morti generiche le morti di tumore e cancro erano state 366 (6,2%); tra il 1965 e il 1980 (durante l’esercizio dell’impianto), su 7161 morti generiche le cause per cancro e tumore sono state 816 (11,3%), con maggiore incidenza nelle località più vicine alla centrale (SS.Cosma 16%, rispetto a Formia 11,3%). Il tasso ha avuto un aumento considerevole dopo la chiusura (18% nel 1980).

Attualmente la SOGIN sta attuando un piano di “decommissioning” con l’obiettivo di completare lo smantellamento degli impianti e la messa in sicurezza dei rifiuti entro il 2025, restituendo a prato l’intera aera della centrale, così come richiesto dalle associazioni ambientaliste e come desideravano anche alcuni degli attivisti e militanti che non hanno fatto in tempo a vedere l’inizio dello smantellamento dell’ecomostro contro cui si sono battuti.

Il piano di decommisioning della centrale del Garigliano è uno dei primi smantellamenti di centrale nucleare avviati al mondo e viene monitorato da una commissione di controllo di cui fanno parte rappresentanti dei comuni della zona, delle forze politiche e delle associazioni ambientaliste.

Articolo originale pubblicato su Agoravox

Licenza Creative Commons

Quest’ opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Italia.

Lascia un commento